Dal Fronte Moscovita

mercoledì, settembre 27, 2006

пока, москва!

martedì, settembre 26, 2006

Attenzione, chiusura porte, prossima stazione: ma è davvero così importante?

Questi ultimi due giorni sono stati intensi, intensissimi. Tanto intensi che comincio già a sentirmi strano (strano: vocabolo interpretabile).

Alberto sta facendo la valigia, la casa comincia a sbiadirsi, io comincio a vibrare sempre di meno. Sto arrestando il sistema, sto richiudendo questa esperienza nel compartimento stagno, sto appendendo tutti questi ricordi a forma di quadro sul muro di quella stanza, quella in cui entrare quando ti serve conforto.

Non sono triste, sono in partenza. Sono uno che viaggia leggero, io. Si, raccontatela come vuoi, sei rovinato, caro mio. Adesso hai un altro paragone con Milano, sei destinato alla depressione. No, non è vero, non sono di quel tipo di uomini tristi. La tristezza è tristezza invece. Sei triste perché non sai adattarti e non corrispondi alla tua immagine di tè stesso. Sarai triste perché a Mosca eri il Rocket Man in esplorazione con scafandro e cordone di sicurezza, a Milano sarai addirittura di nuovo nell’utero. Mettiti in cuore in pace, Jan. No, non sono d’accordo e ti spiego perchè. Ci sono quelli tristi senza via d’uscita e quelli tristi a causa di una perdita di entusiasmo rispetto a cose che sono state smascherate proprio grazie alla possibilità di paragonarle ad a altro. Ma se paragono me stesso con me stesso, allora vedo una via d’uscita. Su questo posso darti ragione e smettere di fare l’avvocato del diavolo. Siamo tristi quando osserviamo cose mutevoli, ma la cosa più costante, oltre ai concetti eterni, siamo proprio noi stessi.

La metrò sta arrivando, spinge il vento dall’odore di gomma e metallo caldo. I capelli si scompigliano e il Guerlain della ragazza angelica e dagli occhi furbi vicino a me mi investe misto a quello della galleria. Il treno stride e frena ed escono i russi, entrano gli italiani. La ragazza del profumo resta sulla banchina e mi saluta, mi dice che si chiama Mosca. Devo entrare perché mi spingono dentro.

La voce nella metrò ci avverte che le porte si chiudono e quale sia la prossima fermata. La prossima fermata ci serve nelle cose mutevoli, nelle piccole organizzazioni della quotidianità. C’è un poster russo che conclude la serie di manifesti sovietici. Si tratta di una fotografia di una scritta in caviale nero su fondo di caviale rosso che dice: “E vissero felici e contenti”.

















E vissero felici e contenti.

lunedì, settembre 25, 2006

Ultimi eventi dal fronte

Dal conto alla rovescia dei giorni si è presto passati al conto alla rovescia delle ore, che sono precipitevolmente scese sotto le 100, poi sotto le 70 e ora ne mancano 24 all’abbandono delle nostra navicella spaziale in orbita su Mosca (l’appartamento in ulitsa Vucheticha al 4, ingresso 2, appartamento 20; un palazzetto anni ’50 di 5 piani).

Il nostro tassista è stato fermato da una Zhiguli della milizia in borghese. Era tutto in ordine, ma i cento rubli di mancia non glieli ha tolti nessuno. L’autista ha commentato: “Normalna”.

Stando qui si comincia ad accettare e lasciar correre un sacco di cose, il che è un ottimo esercizio, ma è facile dimenticare che esistono cose scorrette. Col fatto che non ci sia ancora una classe media definita, ci sono super-ricchi con tutto il loro universo di servizi e beni e i poveri con un altro tipo di mondo. Il punto d’incontro è una via di mezzo fra le cose di entrambi. Uno studente come me, per esempio, non va a cena al Pushkin (bellissimo, in centrissimo, carissimo direbbe Messner), cena a casa e compra al supermercato della gente normale, ma poi se esce la sera va per forza in posti dove poi un cocktail costa 10 euro ed entri solo se il feiskontrolshik ti vede in tiro (o ti conosce). Da noi è tutto più livellato: 9 ristoranti su 10 sono abbordabili e devi cercare quello davvero pregiato, mentre qui è il contrario. Per 9 ristoranti devi vendere un rene, e per trovare il localino da 10 euro devi avere una certa conoscenza della città e un buon lanternino.

Sono venuti a trovarmi i miei genitori. Mi sono trovato a fare gli onori di casa, a guidarli per Mosca e a leggere per loro i cartelli in cirillico. Mi sono trovato a contrattare n russo il prezzo del taxi che li riportasse in albergo e mi hanno anche riportato un po’ i piedi per terra riguardo alla Russia e a certi aspetti negativi che stavo perdendo di vista per amore di questo straordinario bardak (casino). Ecco, avere qui i genitori è stata un’esperienza di decontestualizzazione, un’opera d’arte ready-made.

Poi domenica sera ho perso il portafogli, con bancomat, patente e soldi. L’esperienza più comica, ma che avrebbe fatto impazzire uno appena arrivato è stata la denuncia che ho fatto alla milizia.

L’ufficio si trova vicino ad ulitsa Arbat, davanti c’è un agente con un kalashnikov che si guarda in giro. Ha le unghie sporche, ti fa pensare a un soldato più che ad un poliziotto che dovrebbe essere in contatto con la gente comune. Non mi spara, così entro.

Ci sono varie fotocopie di ricercati, tra cui una serie di Ceceni, appese al muro beige, poi due scalini mi portano ad una grossa vetrata con dietro l’accoglienza. Chiamiamola così.

C’è un agente con una divisa lisa e dall’aspetto poco pulito. Tondo, con una testa piccola e dei baffi appuntiti ma non simmetrici, ha degli occhi cattivi e le mani sporche anche lui. Mi guarda annoiato e io cerco di spiegarmi in russo, ma mi accorgo ben presto di non conoscere sufficienti parole.

Excursus:

Poco prima mi ero recato al Consolato italiano per chiedere cosa fare e mi ha accolto un carabiniere impassibile. Gli ho chiesto, dopo la sua indicazione di andare dalla milizia, come avrei potuto spiegare queste cose in russo e la sua geniale soluzione, che mi ha fatto decantare le lodi del consolato italiano a Mosca, è stata: “Si faccia capire”.

Testa di cazzo.

L’agente cattivo e liso non ha nemmeno una frazione di secondo dedicata alla pazienza, o non ha una parte del cervello dedicata a questo, così si alza e dai capelli gli spuntano corna, dai pantaloni una coda pelosa e rossa e prende in mano il tridente e viene da me. La porta si apre con una fumata di zolfo e la Carmina Burana che squarcia il silenzio pigro dell’ufficio ed arriva impetuoso l’Uomo più Scortese del Mondo.

Io, timido e speranzoso, cerco a gesti di spiegare che mi deve essere cascato dalla tasca il portafogli. Lui emette parole su parole, sempre più in fretta e sempre più rumorosamente e termina con prokhadite, che significa cammina. Lo show termina e lui sparisce dietro la porta. Io me ne vado con la mia coda tra le gambe e le orecchie abbassate. Dietro al vetro un collega pancione ma dall’aria di un caro zio sta giocando a Puzzle Bobble sul pc di servizio.

Telefono a una mia collega russa che fa l’interprete! Idea! Poi torno da quell’agente, che è l’Elemento Presente nell’Acqua Minerale, lo Stronzio, e gli passo la mia collega al telefono. Probabilmente lui non ha la facoltà di controllare la sua voce e urla anche con lei, spiega cose dalla prole non così lunghe e termina con diversi pazhalsta, prego. Lei arriverà un’ora dopo e mi compilerà la denuncia, in cirillico. Io non sono scosso, penso allo Stronzio Frustrato e al Carabiniere. Quest’ultimo –vabè.

Partirò mercoledì, quindi mi aiuteranno gli amici moscoviti con la denuncia. Nel frattempo non potrò guidare.

martedì, settembre 19, 2006

Ciao Vico





























Vico Magistretti 1921-2006.
Pian piano partono tutti e noi cosa facciamo?

Troppo bella, la voglio!

lunedì, settembre 18, 2006

Eccomi a fermare una macchina

Tutti hanno il loro Mausoleo, da?

C’è chi crede nella Ferrari, chi in Versace, chi crede nella Bibbia, chi crede nelle vacanze, chi crede nell’alcol, chi nelle sigarette, chi alla pubblicità, chi alle informazioni di seconda mano, chi a quelle dirette, chi nella guerra, chi nella pace, chi in sé stesso, chi nel prossimo, chi crede in internet, chi nella democrazia, chi nella “democrazia”, poi c’è chi crede che non ci sia nulla a cui credere là fuori. In ogni caso, un ideale di fondo c’è sempre.

Amen. Parola mia.

Questo era per introdurre la mia visita al Mausoleo di Lenin. Quattro giorni fa la temperatura era tornata sopra i 10 gradi, c’era un sole tiepido e mi sono svegliato presto. Lenin ti accoglie dalle 10 alle 13 e la Piazza Rossa è chiusa ai turisti. Alle 9:50 mi metto in coda, una coda ben diversa da quella di agosto, infatti in dieci minuti sorpasso il filtro di sicurezza. La Piazza è vuota, un po’ più in là quella piccola piramide rossa che aspettavo di visitare già da diversi anni.

Perché? Non per pellegrinaggio, forse più per una specie voyeurismo pop nel pianeta Mosca. Si tratta di vedere uno dei personaggi più controversi del secolo. Dittatore o Salvatore? Messia o Diavolo? Tutte le trame più avvincenti si basano su una lotta fra il bene ed il male e Lenin ha incarnato tutta questa lotta proprio in sé. Secondo gli altri.

All’entrata le guardie sono serie. Subito dentro la porta un guardiano indica con la testa di voltare a sinistra. Vedo scalini che scendono ma i miei occhi non si sono ancora abituati all’oscurità del Mausoleo. In fondo a pochi gradini vedo una divisa forse su un manichino, illuminata dall’alto. Faccio fatica a vedere i gradini neri nel buio e devo rallentare. Il manichino è in realtà un’altra guardia. Alla mia destra le scale scendono ancora, c’è silenzio e in fondo un altro soldato vigila. Arrivo a lui e c’è un passaggio sulla mia destra. Sarò sceso di qualche metro dall’ingresso e sto per entrare nella stanza del sarcofago. Gli occhi si stanno abituando lentamente ed entro nella sala. Una stanza in marmo nero, il soffitto è il negativo dei gradoni che si vedono all’esterno. Le pareti raffigurano una serie di bandiere rosse al vento, in pietra rosso sangue. Al centro della sala il sarcofago, alla mia destra delle scale salgono e portano a un piano rialzato quanto la bara di vetro. L’intento è di girarci intorno senza fermarsi. Lui è lì. Più basso di quanto pensassi, il viso serio, una mano aperta e una chiusa a pugno. Le punta delle dita più scure. Sembra una manichino, sembra ritoccato e verniciato.

Credevo che mi sarei emozionato o che sarei rimasto come lui –di stucco- alla vista del suo piccolo monumento. Invece niente. Lo vedo, lo scruto con la curiosità di chi va al museo di storia naturale, mi chiedo anche che cosa ci faccia lì e se avesse mai pensato di finirci. Cosa starà sognando? Ci guarda dall’alto e scuote la testa? Lenin, un altro monumento alla gloria di… cosa? Alla gloria di chissà che cosa, poi. Forse alla gloria delle Bentley che sfrecciano a 140 km/h sull’anello interno?

Cosa ci fa lì? Che legittimazione ha a stare lì? Prima di vederlo pesavo che rimuoverlo e seppellirlo sarebbe stato stupido e contrario, ora che ci penso, al diritto di essere guardoni. Ora che invece mi ha lasciato freddo mi rendo conto che forse è solo un altro di questi strani controsensi russi. Il Dio Lenin in quello che fu un paese ateo, in Dio Lenin che finge di essere Dio quando gli dei adesso sono i biglietti da “sto bucks”(cento dollari). Bah.

Controsensi come quando sono uscito dal Mausoleo per fare il giro sotto le mura del Cremlino, dove sono sepolte le personalità importanti dell’URSS. Ogni tomba ha la sua statua e i suoi fiori finti. Ma chi ha i fiori freschi? Quale sarebbe il più lieto controsenso? Esatto. I fiori freschi ce li hanno solo Stalin e Dzerzhinskij.

mercoledì, settembre 13, 2006

Per lo stoico

Prevedibile è: in Russia una parte della società ragiona con la testa sovietica, un’altra parte in modo molto più vicino ai canoni europei.

Il primo può farti veramente girare le balle. Sembra davvero che una conversazione debba fondarsi su domande e risposte predefinite, redatte a priori e stampate in un manuale tecnico per la conversazione sovietica, con quote, tempistiche, inflessioni previste. Il tutto incorniciato da bollo, timbro e firma. Per cortesia, egregio passante, ragioni come un computer. Grazie!

Il produkty è l’alimentari di vecchia foggia. Si entra in una stanza e si è circondati da vetrinette-frigo con i prodotti freschi. Dietro di esse la venditrice, dietro di lei gli scaffali con gli altri prodotti. Il self-service non è concepito e bisogna chiedere. Con precisione però.

Un giorno voglio comprare una cosa che non c’è, tipo un microscopio a scansione fotonica, così entro e mi esprimo nel mio stentato russo.

“Drastvuitse! Mikroskop s fotonov skansija yests’?”

”Shto?” risponde la commessa, aggrottando la fronte.

“Mi-mikroskop… fotonov skansija…” azzardo.

“Niet, niet! Niet! Nie yests’! Pachimu...“ Aggiunge altri vocaboli strani, lunghi e dall’atteggiamento solo vagamente bellico, facendomi capire che non ho letto il manuale per l’acquisto nei produkty. In più scuote la testa ed evita il contatto visivo. In pratica mi caccia verbalmente fuori dal suo contesto anacronistico come anomalia non prevista. Cacciarmi è come premere il Tasto Normalizzatore che rimette in armonia la situazione. Situazione in cui un uomo può entrare, comprare latte e pilmini e andarsene.

Esiste un Tasto Normalizzatore in Russia e ne ho fatto esperienza settimane fa. Mi sono trovato a fare la spesa senza aver controllato di avere soldi a sufficienza e mi sono trovato alla cassa questa situazione:

La commessa mi parla in russo con tono penetrante, come se volesse parlare ad una stanza insonorizzata dentro di me. Io continuo a far capire che deve parlare più lentamente perché non ci capisco una fava. Lei annuisce, è giovane e quindi sorride, poi continua a parlare in russo. Capisco solo Malchick (ragazzo). Le cose sono imbustate e io vorrei toglierle d’impiccio e metterle sul tavolo là vicino ma lei si volta e si rivolge al tizio della sicurezza, un cinesone alto e butterato, ma tutto sommato innocuo. Questo si volta verso gli armadietti (non si può entrare con borse e zaini nei supermercati), ne spinge indietro un blocco che rivela un tasto segreto sulla parete. Lo preme. Arriva una donna che prende un carrello e lo mette tra la cassa e noi, poi prende i sacchetti, li mette lì dentro e li cura. Azzardiamo a soluzione, cioè che io sto qua e Alberto va a prelevare. Soluzione accettata. La donna del carrello inserisce una chiave nel calcolatore di cassa e fa passare avanti il prossimo cliente, che ci sorride. Gli altri impassibili.

Dopo aver pagato i sacchetti ci vengono riconsegnati e l’atmosfera ritorna normale.

È difficile da spiegare, ma alcuni di questo Tasto ne hanno bisogno. Ieri sera dei suonatori ambulanti si sono messi a litigare per strada a voce alta. Poco dopo un flusso di persone ne annulla la vista e il rumore. Come mai? Qualcuno ha premuto il tasto. Tipo Men in Black, tipo The Truman Show. Succede spesso, è strano e robotico.

Concludo con l’esempio sovietico più caratteristico. Siamo andati alla banya, quella storica e più famosa, quindi anche più turistica. Inglese, zero. Vabbè non importa, dopo sei settimane il russo che parliamo ci basta. Ci indicano di portare le cose di valore al guardaroba, amministrato da un signore panzuto e anziano. Riempiamo la borsa della macchina fotografica di Alberto dei nostri telefonini e portafogli. Il guardarobiere è sempre più impaziente. Fa capire di muoversi. Gli facciamo capire che vorremmo una busta ma no, sempre più impaziente. Alla fine infiliamo dentro tutto, o meglio infilziamo dentro tutto, cercando di chiudere la lampo e il vecchietto non ne può più. Chiusa la borsa, Alberto gliela vuole dare, il vecchietto dice qualcosa, Alberto non capisce, il vecchietto gliela strappa di mano e la schiaccia sul bancone sbraitando. Poi sembra che stia aspettando che una colla inventata si solidifichi tra borsa e ripiano. Ci fa firmare con stizza.

Ma al ritorno, dopo due ore di banya rigenerante con ben pochi altri clienti torniamo al guardaroba con lo stesso signore che ci riconosce subito. Lo salutiamo indicandogli la borsa e lui ci dice di andare a prendere la ricevuta firmata. Va bene, giusto. Andiamo a prenderla e gliela diamo e lui… confronta le firme su ricevuta e copia carbone!

Regole!

Queste cose fastidiose succedono spesso ma vanno prese per un problema di chi si comporta così e bisogna cercare di lasciarsi scorrere addosso questi momenti. Un posto come la Russia non è consigliabile come primo viaggio fai-da-te, poiché questo insieme di apatia e burocrazia scontrosa possono davvero far impazzire di rabbia. Non bisogna rimanere scossi, ma perseverare con pazienza.

Tra la altre cose, molto spesso il tono sembra scontroso e arrabbiato, ma i contenuti proprio il contrario. Come dicevo qualche post fa, questo paese è un casino della madonna. A volte un videogame schematico, a volte un’avventura nel calore delle emozioni. A volte vorresti spaccare tutto, altre volte anche, ma poi capisci che così non ripari niente. Penso che la cosa principale che si impari qua è come raggiungere l’indipendenza emotiva da cose e persone, senza fermarsi –però, e qui viene la cosa difficile- al rimanerne distaccati.

martedì, settembre 12, 2006

Mare di facce, schiene, scarpe: un giro in metro', tanto per cambiare